2012
Qualche anno fa ho visitato un’interessante mostra del pittore asiaghese Giovanni Forte Sceran, (1916-2000) al Museo delle ex Carceri di Asiago; conoscevo poco il pittore, un autodidatta appartato che per tutta la sua vita ha mantenuto l’attività di famiglia di calzolaio nel centro del capoluogo dell’Altopiano.
Accompagnavano la mostra le registrazioni dei muggiti delle mucche sotto un temporale improvviso e il lugubre canto della civetta; gli stessi suoni che il pittore ascoltava, estate ed inverno, nei luoghi più impervi e scomodi, raggiunti calzando gli sci, per fissare sulla tela le impressioni, soprattutto invernali, che tanto lo appassionavano.
Un pensiero subito è andato ad un altro pittore errante, ben più famoso, il trentino Giovanni Segantini: l’insuperato cantore delle montagne, che salì sempre più su, a cercare la luce fino ai 3000 metri, dove, liberatosi dei fumosi orpelli della pittura accademica, raggiunse una qualità pittorica che ha pochi eguali nella sua epoca.
Il paragone col grande pittore trentino, anche se impari, non è fuori luogo. Segantini fu pittore a tempo pieno e, dopo una vita di stenti, raggiunta la maturità fu molto richiesto, soprattutto dai collezionisti tedeschi. Ma mantenne la sua autonomia e mai si piegò ai compromessi che quasi sempre il mercato impone.
Così mi piace pensare del calzolaio Forte Sceran, che non ha mai smesso di fare il suo umile lavoro, per essere libero di dipingere ed intagliare quello che più gli piaceva, o l’ossessionava, l’arte a volte è una malattia, dolce malattia; ne sapeva qualcosa Segantini, che fu trovato morto vicino al suo amato cavalletto, sul Maloja in Svizzera, a 3000 m. d’altezza.
Girando per le sale passavo da una solitaria contrada ad una cima selvaggia e nevosa, abitata soltanto da sparuti e contorti larici, ma ogni tanto la mia attenzione si concentrava su una particolare contrada, che non rientrava nelle mie conoscenze. Mi chiedevo come mai non fossi passato da quelle parti, essendo io un buon camminatore come avevo fatto a non vedere un luogo cosi bello, che inoltre dall’aspetto dimostrava di esser stato risparmiato dal primo conflitto mondiale. A quel punto estraevo il mio notes, mi segnavo il nome della contrada, ripromettendomi di andarla a visitare al più presto. Ad un certo punto, le contrade misteriose diventarono troppe e notai le date dei dipinti successive ai fatidici anni ’70 che sconvolsero pesantemente l’ambiente dell’altopiano; così il mio viaggio virtuale giunse presto alla fine, deposi il mio notes e capii…
Povero Forte Sceran! I suoi cari paesaggi erano irrimediabilmente perduti, mutati dalla proliferazione delle seconde case; a lui non restava che rifugiarsi sempre più in alto sulle montagne oppure al passato. In questo caso il passato era conservato nelle fotografie di Cristiano Bonomo, il fotografo che dalla fine del 1800, immortalò l’ambiente dell’altopiano che tanto interessava a Forte Sceran.
Ma c’era stato un altro studioso, Aristide Baragiola (1847-1928) che aveva contribuito a rendere famoso l’altopiano e le sue contrade con “ La casa villereccia delle Colonie Tedesche Veneto-Trentine” del 1908.
Nel 1893 l'autore era salito in Altopiano per villeggiare con la famiglia e ne rimase talmente colpito da ritornarci più volte, prima con il figlio al seguito, che eseguiva gli schizzi degli edifici più interessanti, poi dal 1903 con la sua Kodak.
Con quel libro il pittore di Asiago aveva modo di viaggiare nella memoria di un Altopiano che non c’era più. Pur essendo stato un vero pittore en plain air, soprattutto in alta montagna, nella tarda età, quasi come un manifesto da lasciare ai posteri, si dedicò alla rappresentazione di un altopiano mitico, che ricostruiva e rielaborava con grande cura e amore. Del resto la frequentazione dell’amico pasticcere/fotografo Brazzale, che lo seguiva anche in alta montagna, fa capire quale fosse il suo rapporto con la fotografia; in seguito diverrà strumento indispensabile per il suo progetto illustrativo della memoria edilizia perduta. Spiace che nella mostra sia stato completamente ignorato questo aspetto dell’ultima produzione di Sceran; avrebbe fatto bella figura un’analisi comparativa dei molti soggetti tratti, tali e quali, dalle foto di Bonomo, senza togliere i meriti al pittore avrebbe reso onore al lavoro di un fotografo a cui tutti gli studiosi di memorie altopianesi fanno riferimento. Forte Sceran non rifiutava la pittura al chiuso, come scritto nel catalogo della mostra, anzi ne ha fatto gran uso, reinterpretando con raffinato gusto illustrativo le foto di Bonomo che ritraevano l’Altopiano antecedente alla fatidica data del Maggio 1916. Nelle sue ultime opere Sceran concentrò così la sua attenzione su tutti quei dettagli dell’edilizia altopianese che non aveva mai visto: tetti di paglia, scandole, annessi addossati alle case come pollai e porcilaie, pagliai, cataste di legna di tutte le fogge e misure ed orti dappertutto, con gli immancabili recinti di stoan platten, che come il più prezioso dei gioielli, assieme alle immancabili pozze, arricchivano ed univano in un continuum senza fine i Sette Comuni.
Purtroppo Sceran e Baragiola, questi due anomali personaggi, non si sarebbero mai potuti incontrare, e nulla sappiamo se Baragiola, così familiare alla Svizzera, conobbe mai Segantini; ma mi piace immaginarli tutti e tre insieme da qualche parte, su qualche monte, con l’aria incantata ad osservar chissà cosa mentre all’orizzonte un altro grande di queste contrade, partito da poco, da solo come sempre sugli sci, li sta raggiungendo sbucando dal bosco a falcate lente ma sicure, da vecchio alpino, Mario Rigoni Stern. Una foto dell’immaginario che il fedele amico Brazzale avrebbe potuto dedicargli, la più bella della sua collezione.