Le mele di Peter

28 novembre 18

Peter era un caro amico tedesco che dopo la guerra è riuscito a realizzarsi lavorando sodo e mettendosi in proprio nel campo delle assicurazioni. Nell'età matura, ancora in forze, ha coronato il sogno di lasciare il lavoro e venire a vivere in Italia: ristrutturato un rustico nelle colline trevigiane, si e messo a fare il viticoltore e l'agricoltore. 
Peter apparteneva ad un'antica famiglia di nobiltà baltica, e si vedeva sia nei modi che nell'aspetto.
Ciò non gli impediva di lavorare come un contadino e piantare a oltre settant'anni un uliveto tra lo stupore di parenti e amici. Le sue mani da candide erano diventate ruvide e callose con le unghie sempre consunte. 
Quando era già malato e le forze gli venivano meno l'ho aiutato a fare la sua ultima vendemmia e la raccolta delle olive; alla molitura il suo olio usciva sempre dal frantoio con la minore percentuale di acidità dei produttori vicini.

Durante una pausa della raccolta Peter ha staccato delle mele dall'albero e me le ha offerte; seduti su un sasso ci siamo messi ad addentarle, erano dolci e profumate.
Finita la mela ho gettato il torsolo dopo averlo accuratamente rosicchiato, Peter invece lo ha inghiottito.
Quasi per scusarmi, con qualche senso di colpa, gli ho detto che non ero capace di mangiarlo.
Lui mi ha rivolto un sorriso di comprensione e mi ha detto:
“Tu non hai visto la guerra, io sì”.

Nella primavera del 1945 Peter aveva tredici anni, quando gli americani sono giunti alle porte del suo villaggio è stato inquadrato ed armato per una difesa ad oltranza come tutti gli altri cittadini rimasti: donne, vecchi e bambini. 

“Eravamo da giorni in attesa, tutti schierati con i fucili puntati verso il nemico all'orizzonte, a quell'età la fede nel Reich era assoluta. 
Siamo stati facilmente circondati, disarmati e trascinati in grandi buche dove ci sorvegliavano a vista con le mitraglie puntate.
Nelle buche non c'era nulla, solo terra, neanche un telo per coprirci dalla pioggia. Gli americani non si fidavano di noi, avevano talmente paura che le poche cose che ci davano da mangiare ce le lanciavano. 
Le prime cose decenti che ho messo sotto i denti sono state delle mele che a fatica ho racimolato azzuffandomi con gli altri nel fango”.

Nell'inverno Peter ritornò in Germania per curarsi e non l'ho più visto: le notizie erano sempre peggiori, finché nell'estate successiva giunse la notizia della sua morte. 

Mi sono sempre piaciute le mele, quelle raccolte dall'albero che si possono mangiare con la buccia, ancor di più da quando mi ricordano l'amico Peter.

Il pane di Abdul 

Mi sono recato più volte in Marocco, viaggiavo in autonomia soprattutto tra i berberi delle montagne e del deserto oltre l'Atlante.
Nei villaggi di montagna potevo ritrovare gli stessi modi di vivere che erano delle nostre montagne fino a un centinaio di anni fa.
Le donne passano mezze giornate a lavare in gruppo la biancheria attorno ai pozzi in aperta campagna; stanno bene tra loro in allegria, lo stare insieme allevia la fatica. Caricati i panni sulla testa dentro grandi ceste, se li portano appresso assieme ai bambini più piccoli.

Allo stesso modo si recano al forno comune del villaggio portando sulla testa dei taglieri con l'impasto già pronto alla cottura.
Sulle panche attorno al forno, tra un fragrante profumo e un viavai di madie e focacce, chiacchierano allegramente aspettando il loro turno.
Per riconoscere le pagnotte sigillano la pasta fresca con le dita.
Anch'io acquistavo il pane in quei forni, prima di partire per zone più desertiche. 

Un giorno dopo aver visitato la fatiscente Kasba del pasha Glaoui nel villaggio di Télouet tra le montagne, mi stavo recando verso Ait Ben Haddou che col suo Ksar, anch'esso in parte fatiscente, è una delle mete cineturistiche più famose al mondo.
Giunto nei pressi delle rovine di un serraglio carovaniero sulla via del sale, ho deciso di fare una sosta, avevo notato un albero di datteri.
Dopo averne raccolto una manciata mi sono seduto all'ombra a mangiarli. Quando ho estratto il pane mi sono accorto che la mezza pagnotta era ricoperta di muffa, non avendo molta fame l'ho gettata per terra, avrebbe sfamato qualche animale.
Ritornando verso l'auto per riprendere il viaggio mi sono accorto che sulla pista stava arrivando un ragazzo a cavalcioni di un asino con un carico di legna secca. Aveva visto tutto e, mentre io mi apprestavo a salire in auto, rivolgendomi un bel sorriso è sceso dall'asino ed è andato a raccogliere la pagnotta pulendola accuratamente e infilandola nella sacca. Sempre con un sorriso smagliante e un po' sdentato mi ha detto “Je m'appel Abdul”, e risalito sull'asino ha ripreso il viaggio. 

Mi è sempre piaciuto il pane, quello ben fatto, anche se ne mangio molto meno di una volta, e sono capace di fare dei chilometri in più per acquistarlo da quei fornai che usano buone farine.
In questi spostamenti mi ritrovo spesso a pensare al sorriso di Abdul e alle sue peregrinazioni in groppa all'asino.

 

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