Nella Kugola ha trovato posto anche la mia espiazione. Da bambino usavo come arma la fionda, impugnandola partivamo per la guerra. I nostri nemici erano gli uccellini più piccoli e indifesi: regoli “stelini”, pettirossi “petarei”, cincie more "perussole" ma soprattutto gli scriccioli “rasetle” in tzimbar o “cerr”, nome onomatopeico ad imitazione del loro canto stridulo e pungente, che popolavano le siepi e i rovi dove gheppi e poiane non riuscivano ad entrare. Essendo animali molto socievoli si alzavano in gruppo dal cespuglio, difficile colpirli caricando sassi nella fionda, più facile prenderli con la rosa di pallini tirando nel mucchio.
Dopo i dieci anni ho cominciato a rinsavire e ho smesso di andare in guerra e per rimediare ai miei errori di gioventù ho costruito un nido di scricciolo di un metro per i miei nipoti, dentro cui mi sono anche infilato, e uno di tre metri vicino al Teatro del Bel Calcare, una sfera con una panca circolare all’interno per ricevere gli amici e le persone in genere che abbiano a cuore e nutrano rispetto e cura per il paesaggio, il mio salotto buono dove si entra seduti in drio culo, sollevando e ruotando le gambe di 180°. Lo scricciolo nel suo incessante andare e venire usa il becco per intrecciare i piccoli rametti che raccoglie qua e là, io ho intrecciato a mano noccioli e maggiociondoli tagliati qua e là negli antichi sentieri privi di manutenzione divenuti impraticabili. Ne ho aperti parecchi, spesso aiutato dai richiedenti asilo africani, parcheggiati da una cooperativa in un albergo dismesso del villaggio. Per me sono stati un aiuto impareggiabile. A un certo punto avendo scoperto che dovevo impermeabilizzare lo Gnaro, mi son dovuto cimentare nella costruzione di un tetto coperto di paglia di segale, rocken-ströa, come si usava fino agli inizi del secolo scorso, mio padre era nato proprio sotto un tetto di paglia. Nei miei viaggi giramondo avevo già trovato tetti di paglia in disparati contesti, dai ricchi cottages inglesi alle case dello Yucatan messicano, per non parlare dell'Africa, e soprattutto nei dipinti dei pittori veneti del Rinascimento. Ho cominciato da zero, dalla materia prima, seminando la segale lunga attorno al mio nuovo salottino, sempre con l’aiuto dei richiedenti asilo, migratori come lo sono gran parte degli uccelli. Per fortuna mentre mi stavo accingendo alla copertura avevo a fianco Karim Keita, un ventenne maliano che ospitavo a Cesuna con altri africani subsahariani per aprire l'Antica Strada del Costo con il mio gruppo di Montagna e Solidarietà, senza di lui avrei fatto un pastrocchio. «Karim, puoi fare dei piccoli fasci con questa segale che poi li montiamo per coprire lo Gnaro? Qui prima della Grande Guerra, quasi tutte le case erano coperte di paglia, ma mio papà che era nato sotto un tetto di paglia si è dimenticato di dirmi come li faceva». Lui mi ha guardato un po' perplesso e quando si è accorto che non ci capivo nulla ha preso coraggio «Non si fa così Giorgio -mi ha spiegato un po’ in italiano e un po' in francese- mi serve uno spago tenero, da tendere tra due pali da piantare a 4 , 5 metri di distanza» Ha steso la segale e ci si è seduto sopra, intrecciando la rafia con lo spago sottostante, creando mazzetti uniti tra loro, una specie di tappeto. Le sue mani si muovevano sicure con gesti sapienti tra nodi e intrecci vegetali, una destrezza che avevo già notato nell'uso della roncola del nigeriano Kelly e del ghanese Sonsoh, che lo avevano preceduto tre anni prima nella costruzione della tensostruttura lignea dello Gnaro. «Da noi Malinke questi tetti li dobbiamo rifare spesso perché le termiti ce li mangiano, io ho cominciato da bambino, ma a differenza di voi noi usiamo il bambù». Arrivati con la copertura sulla sommità della sfera, si poneva il problema di chiudere la cupola sul colmo, un aspetto che deve conciliare tecnica ed estetica, la prova più ardua. Nel passato le lanterne, il completamento sommitale, sono sempre state un campo di prova per gli architetti. Questa ciliegina sulla torta era talmente importante che Brunelleschi dopo aver portato a termine la cupola di S. Maria del Fiore a Firenze è stato costretto a partecipare ad un concorso per aggiudicarsi l'esecuzione anche della lanterna. Unica eccezione nell'architettura, il Pantheon di Roma, la cupola madre dell'architettura classica, con il suo oculus di 9 m di diametro, un buco aperto alla luce e all'acqua, all'apice di una sfera ideale come il nido dello scricciolo. Dietro al Pantheon, oltre al tutto di Pan, c'è ancora lui l'imperatore Adriano. Allattato dall'arte classica, per concludere lo Gnaro, mi contorcevo nel cercare una soluzione tra reminiscenze di verticalismi gotico-vegetali e foglie d'acanto corinzie, Karim era più calmo e sembrava non aver dubbi, capita l'antifona mi ha detto. «Da noi Malinke lo chiamiamo il trou». Senza esitare, impugnando il falcetto è entrato nel campo di segale matura e, piegato il dorso ad angolo acuto sul bacino, ha cominciato a fendere colpi sicuri raccogliendone alcuni fasci e, unendoli in un unico blocco, si è messo ad armeggiarci intorno intrecciando la paglia all'estremità con l’attitudine di un coiffeur alla moda. Solo alla fine ho capito come quell'affare, dall'aspetto di un solido nodo, a forma di fiocco capovolto, simile a quelli che ornavano il colmale dei casoni di Cesuna, ma anche delle lagune venete, sarebbe salito sulla cima del mio Gnaro. «Architetto Karim, chapeau!... di paglia» gli ho detto girandomi, ma lui si era di nuovo inginocchiato, questa volta rendere grazie al suo dio in direzione del Lèmerle e della Mecca.

 

  

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