Dal profano al sacro: o prete o frate o fora co le vache
Nel 2009 ho deciso di riportare nei pascoli della mia famiglia sullo Zovetto vacareti e vacarete che lì o nei dintorni hanno trascorso estati per molti versi indimenticabili a tendar le vache. Ce n'erano molti nel villaggio e i più anziani si sono dimostrati subito entusiasti: ora capivano perché attorno alle proprietà di famiglia stavo rimettendo "a dimora" le antiche laste, le stoan platten, al posto del sinistro filo spinato. Al richiamo ha subito risposto Gioventina Frigo, che nel 1937 ha trascorso i tre mesi che tuttora considera i più belli della sua vita a servizio di mio nonno Angelo, è tornata con Bruno Stivanello, un suo classe del 1924 di Mosson, che ha raccontato le storie semplici, intrise di nostalgia per una natura preponderante e sempre benigna, anche se al contrario di quanto è successo a Gioventina la famiglia che lo ha accolto non lo trattava bene. Al Monte di Calvene lo scrittore Fermino Brazzale ha affilato la falce del padre Bepi, che saliva a piedi stagionalmente a Cesuna, per rispondere al richiamo ancestrale dell’Altopiano. Salito nella Casareta, la piccola stalla, l'ho ripulita di un rivestimento di tavole che all'interno le davano un aspetto da chalet, ho eliminato la stufa e tutti i pacchetti di Marlboro, trofei dell'insicurezza dei ragazzi del villaggio che li avevano appuntati alle pareti negli anni. Per ultimo ho liberato il socàl, lo scolo per le deiezioni delle mucche. La Casareta doveva tornare ad essere la piccola stalla che era, idealmente pronta per ricevere quattro vacche come nel passato, la furia modernista legata agli impianti di risalita invernali ha travolto e arricchito per cinquant'anni il villaggio, demolendo ogni residuo del passato, riducendolo ad un'anonima periferia di città senz'anima e identità.
Ho poi scoperto che quell'edificio è l'unico in tutto l'Altopiano di quella tipologia: pareti di stoan platten di due metri con un tetto di travi incastrato sopra a blockbau. Mancherebbe solo di sostituire le lamiere del tetto, regalo della guerra, con la paglia di segale all'uso antico "rocken ströa". Avevo trovato un nuovo riparo per i vacareti, ero pronto ad accoglierli per il primo Raduno, ne ho organizzati sette. Ci si trovava nel piazzale della ex Stazione da dove salivamo sul pascolo, alcuni a piedi per l'antico sentiero che lambisce villa Tabor, per l'occasione l'ho riaperto nel primo tratto soffocato dal bosco. Altri salivano in auto per la vecchia strada sterrata dei Magnaboschi che dalla chiesa sale al Monteselo del Kübele e alla croce di rogazione. Da lassù le auto 4x4 potevano scendere per portare gli anziani alla casareta: una cappella gentilizia aperta per uso pubblico che accoglieva ugualmente chi arrivava dal basso e dall'alto come un'erma bifronte, l'ha definita Antonella Brazzale, salita da Calvene, paese dei suoi avi, per la via dei segantini. «Mi Giorgio, vigner fora dalla casareta de to nono Angelo dove menavo le vache, vestio da prete par dir messa xe sta na roba...me go trattenù par non commoverme, parchè mi son emotivo»: questa la toccante confessione di don Antonio Magnabosco Vani (1924-2015), il primo di quattro preti, tutti di Cesuna e tutti vacareti, a dir Messa al raduno. Come il fratello più giovane Giuseppe, mancato partigiano, anche lui era salito a pascolare le mucche di famiglia. Poi da chierichetto di don Grandotto ha sentito la vocazione e ancor bambino è entrato nel seminarietto dei Cavanis a Possagno, dove ha insegnato per quarant'anni dopo la laurea in lettere classiche a Pisa. La sua predica trasudava emozione: «Vedete, cari amici e turisti che siete venuti a onorare questo nostro paese, qui in questo posto, io sono un po' smarrito perché non lo riconosco più, non c'erano alberi, c'erano solo pascoli verdi perché tagliavano il fieno, ora l'erba diventa secca e gialla ed è per me una specie di smarrimento. Abbiamo già il monte Lèmerle. nero di abeti e di tanne, se divenisse nero anche lo Zovetto avremmo un paese oscuro come una vallata di montagna, mentre questo monte è pieno di luce. Quando io prima mi sono avvicinato all'altare, volevo baciare, non l'altare ma questo terreno, il monte Zovetto è un altare».
Lo stesso spaesamento provato nel 2010 anche da don Gianfranco Ambrosini che, ricalcando i passi della sua infanzia, ha stentato a riconoscere il «Kübele, scojo grande, messo là tra l’Estimo e la val dei Campanari, ne la to nichia te ghe riparà, in tempi bruti, vache con vacari», come ha scritto in uno dei suoi tanti componimenti in vernacolo. Quasi ad esorcizzare il malessere don Gianfranco ha poi usato un ferro ritorto raccolto da terra per simulare una telefonata a un cugino vacareto morto da tempo, così come facevano da bambini nei lunghi pomeriggi al pascolo. «Pierluigi, nel tintonarlo on mago te sembravi, e te parlavi dentro soto vose, come tacà al telefono e te andavi a catare gli amici. Ma el filo del telefono funsiona ancora e alora se podémo ancor sentire». Passatempi ingenui e tanta fatica hanno segnato l’infanzia di questi ragazzi, «’na volta la vita era più dura, te lavoravi da quando te jeri nato... Tutte queste cose mi hanno plasmato, formato un carattere, lasciandomi un grande amore per il creato», ha ribadito Don Pierangelo Valente Ceci, officiando la Messa nel raduno del 2012.
E una laurea Laboris Causa ha considerato don Germano Corà l’opportunità di celebrare nel 2011 tra il fieno appena tagliato, addobbato con la casula, con i paramenti delle grandi occasioni, «fare il vacareto mi aveva entusiasmato, mi pareva allora che tutto mi desse importanza, di essere come una di quelle figure della Bibbia dove il pastore viene associato al re. Si veniva a contatto con la vita in tutti i suoi misteri e con la natura in tutta l’estensione delle sue manifestazioni... non ho nostalgia di quei tempi, non desidero cioè il loro ripetersi ma provo gratitudine per quello che mi hanno insegnato e preannunciato: è stato una specie di noviziato». Commozione, spaesamento ma anche allegria i leit motive di questi incontri annuali, che volevano celebrare una cultura contadina morta da più di cinquant’anni ma che non finisce mai di morire...racconti, poesie e strambotti, rievocazioni, musica e cibo per celebrare i servetti di un tempo, attempati e vivacissimi...
A cantare lo Zovetto e l’Altopiano, dove «il tempo della preistoria à impresso il suo marchio», è stato anche Giovanni Comisso, scrittore trevigiano di viaggi e paesaggi venuto più volte a villeggiare a Cesuna ospite nella villa degli Ercego, attuale villa Tabor. Comisso saliva nei pascoli soprastanti, d’estate e anche d’inverno con gli sci lungo il sentiero degli Ostarei, affascinato dagli anfiteatri di pietra affioranti. Tra i muggiti delle mucche distese come le rocce corrose dai secoli e modellate come i loro possenti fianchi, Comisso immaginava le sue Muse in rapporti ancestrali con gli esseri umani, «mugghiano per chiamare l’uomo». Vogliono il sale che il vacareto porta nel sacchettino legato alla cintola, ricordo del mare che un tempo copriva le montagne con altri animali natanti loro antenati. E spalancano le fauci «a ridare, in quest’aria abbandonata dalle acque, la salsedine dell’onda e la loro bava gocciante che il vento disperde in spruzzi bianchi è come soffiata dalla cresta di un’onda che si piega spumosa... e l’uomo rispon- de fischiando, gridando nomi di città, di colore di leggenda, che sono i loro nomi per radunarle alla mungitura...».