15 novembre 2018

Chi non ha la memoria corta e l'età ormai rivolta ad una parabola discendente ricorda bene che fino ai primi decenni dell'ultimo dopoguerra l'Altopiano era per gran parte coperto di pascoli, soprattutto in prossimità dei paesi.
Non faceva eccezione la Val Canaglia, detta anche Valle di Campiello, una valle che tutti conoscono essendo l'accesso più frequentato dell'Altopiano.

1 Val Canaglia. Case Magnabosco con cimitero militare. Sullo sfondo la stazione della Cremagliera di Campiello, A destra il monte Joch

Val Canaglia. Case Magnabosco con cimitero militare. Sullo sfondo la stazione della Cremagliera di Campiello, A destra il monte Joch

Negli anni '50 e '60 una massiccia campagna di rimboschimento con monoculture di pecci, abeti rossi, ha portato le conifere a ridosso degli abitati e delle strade; squadre di avventizi assoldati dai comuni hanno lavorato per anni in queste piantagioni.
Anche i privati, ricevendo gratuitamente le pianticelle dai vivai, sono stati presi dalla sindrome di abetemania che li ha portati con un po' di avidità a piantare i pecci negli ex pascoli fin sul confine delle loro proprietà, senza rispettare la distanza regolamentare con le strade comunali e vicinali. Gran parte delle bellissime stoan platten che segnavano i confini sono andate così distrutte.

2 Abeti rossi messi a dimora nel 1960 con strada di platten in degrado

Abeti rossi messi a dimora nel 1960 con strada di platten in degrado

Il risultato lo si è visto in questi giorni con le strade interrotte da schianti di ogni genere e lo si vedrà ancora per molto nelle strade secondarie; lungo l'ex ferrovia nella Valle di Campiello molti abeti schiantati stanno piegati a mezz'aria sostenuti precariamente dai cavi elettrici di due linee dell'Enel ai lati del percorso già in parte coperte dal bosco fuori controllo.
È forte il sospetto che le campagne di rimboschimento degli anni '20 e '60 del secolo scorso siano state determinate più dal bisogno di dare lavoro ai senza lavoro che per un reale beneficio dell'ambiente. 

3 , abeti rossi messi a dimora negli anni '60 sui pascol

Pecci, abeti rossi messi a dimora negli anni '60 sui pascoli

La stretta di mano
Nei primi viaggi visita parenti sull'Altopiano, appena arrivato nella piazza del villaggio, oltre alle zie che gestivano la Cooperativa di Consumo trovavo la zia Pina che abitava dall'altro lato della piazza. Si compiva così un rito che è durato fino all'adolescenza. 
Dalla zia ricevevo una bella dose di sbaciucchiamenti, non avendo avuto figli riversava sul sottoscritto il suo istinto materno.
Assolta questa prima fase che si svolgeva sempre nella pubblica via al cospetto di un bel po' di comari, si passava alla seconda fase, e lì cominciava a salire in me una certa apprensione; preso per mano venivo portato al cospetto dallo zio Rino, Ottorino, l'ultimo dei fratelli di papà. 
Di solito lo trovavamo all'osteria avvolto da una nube di fumo intento a leggere il giornale da una distanza millimetrica dagli occhiali a fondo di bottiglia, oppure intento a giocare a foraccio dove eccelleva nonostante la forte miopia.
Nel salutarmi si limitava ad una stretta di mano, ma le sue non erano mani ma tenaglie.
I palmi callosi sembravano quelli di un gorilla e le dita terminavano con le unghie gialle di nicotina ammaccate nei modi più inverosimili. Non capivo come potesse articolare le dita, erano dure come radici d'albero.
Preso nella morsa della sua mano ero costretto a piegarmi dal dolore, forse mi voleva punire per la mia impudenza visto che a 10 anni lo stavo già superando in altezza.
Durante questo supplizio mi impegnavo in tutti i modi per resistergli, ma non c'era nulla da fare, e in più dovevo subirmi la sequela dell'elenco dei boschi del Comune di Roana che lui, caposquadra di un manipolo di operai avventizi, mi recitava come un rosario; lì aveva piantato pecci per anni e a modo suo me lo comunicava: da Campiello a Malga Fiara, dal Lèmerle al Linteke, dalla Meatta al Pusterle. 
Una trasmissione orale che affondava le radici nel mondo omerico, io studentello, l'ultimo della sua schiatta, avevo scelto di studiare e avrei sicuramente tradito la montagna per la città, ora dovevo soccombere nella pubblica osteria che in quegli anni era come l'agorà dei greci.

 4 Zio Rino

Lo zio Ottorino

Caro zio Rino
La legge del contrappasso mi ha portato negli ultimi dieci anni a seguire le tue orme, rovistata la tua vecchia stalla ho riesumato tzapini, bekanele, tzerci di legno per camminare ad harnust sulla neve, levarini, mazze e picchi di ogni genere, anche quelli per cavar tzoche. Non ti dico quello che ho fatto perché non lo capiresti, ma ti assicuro che mi son fatto onore anche se rimarrò sempre un signorino di città e le mie mani non diventeranno mai delle opere d'arte com'erano le tue; oggi non sputiamo più sui palmi delle mani, anzi le proteggiamo con robusti guanti.
C'è una cosa però che ti devo dire ed è da tanto che me la tengo dentro; in una delle tue ultime strette di mano quando eri in carrozzella nella casa di riposo, ma la tua mano non aveva perso nulla del suo vigore, mi hai nominato la Val Canaglia come la tua ultima fatica.
Ebbene caro zio, mi dispiace dirtelo ma quella valle era molto meglio prima quando ci salivo con la cremagliera e dai finestrini vedevo le mucche al pascolo; ora quei pecci che avete piantato fino al bordo strada la rendono cupa e tenebrosa, sono abbandonati al degrado e schiantano al primo refolo di vento. E quello che è peggio è che da allora nessuno ha più purgato il bosco, e credo che non verrà fatta la manutenzione neanche nel futuro.
Comunque grazie lo stesso zio, quando passo per la Val Canaglia penso sempre a te guardando quei quattro abeti spelacchiati sulla destra, e in ogni caso la montagna nonostante tutto è sempre molto meglio delle città d'oggi.

5 Val Canaglia,

Val Canaglia. Attenzione, pecci in cauta libera.

 

 

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